Aneddoti

Il mio primo Mottarone

(Alfredo A.)

Luglio 1998. Alberto, mio capo di allora, cercava da tempo di persuadermi (anche con pressioni gerarchiche) a provare uno sport a me sconosciuto: il Ciclismo.

Alla fine, da buon Fantozzi, cedo… bisogna sempre compiacere il capo.
Un venerdì pomeriggio, durante un sopralluogo in cantiere ricevo una sua telefonata:
“Quando torni in ufficio troverai ad aspettarti la tua nuova bici….”.

Tutto vero! Rientrato alla mia postazione di lavoro vedo il solito PC, le solite cartacce, ed una fantastica Masi bianca, mollemente appoggiata alla mia scrivania. Sembrava dirmi “provami”.

Lo faccio. Qualche giorno prima, infatti, il solito Alberto mi aveva “tradotto” in un negozio specializzato ed aveva scelto tutto il mio equipaggiamento, scarpe incluse. Non so perché, ma quel giorno ho le scarpe con me; le calzo, inforco la Masi e… cado. Per fortuna non è presente nessuno dei miei colleghi di stanza.

Il venerdì si conclude con la partenza per Stresa. Sono euforico, Alberto pure, forse anche più di me, ….”vedrai, domani ci divertiremo un sacco!”

E arriva sabato. Il mio battesimo ciclistico è questione di ore, anzi minuti. Ebbro per il mio completino nuovo fiammante che sfoggio con soddisfazione fanciullesca, sono però all’oscuro di tutto ciò che vuol dire andare in bici, ma quel che è peggio, nessuno mi ha informato sulla salita che mi aspetta.

Partiamo.

Alberto: “Andiamo a Vezzo, subito prima di Gignese, ci aspetta Marco”.
Il suo compare se ne sta lì, nel momento più sbagliato, la mia prima uscita, nel posto più sbagliato: in cima a quella maledettissima rampa di accesso alla sua abitazione! Non lo sapevo ancora, ma quella rampa sarebbe stata la prima di una lunga serie; il terrore di cadere per l’incapacità di sganciare i pedali è un ricordo scolpito nella mia memoria.
Saluti, presentazioni…..

Alberto: “Il mio amico è alla sua prima uscita”
Marco: ”Tranquillo, ti piacerà moltissimo”

Si allontanano, parlottano un pò, stabiliscono il percorso. Partiamo, direzione… Armeno.

La prima parte del percorso, da Gignese ad Armeno, è molto piacevole, tutto sommato il ciclismo sembra piacermi ma… dura poco.

Siamo ad Armeno (per me sino ad allora “al meno” in romanesco), una rampa impressionante, peraltro trafficata, mi mette in estrema difficoltà; il mio primo Mottarone è appena iniziato: la mitica vetta mi aspetta 11 km più su.

Soffro, pedalo, ondeggio. Ogni tornante mi sembra insuperabile. Ho un gran mal di schiena. Difficile bere perché non ho alcuna dimestichezza con il mezzo meccanico e non mi fido a mollare il manubrio neanche con una sola mano.

Non devo arrendermi. Il pensiero vola a mia figlia Lucrezia che nascerà da lì a qualche mese, e questo mi ricarica. Penso anche agli insulti che vorrei indirizzare ad Alberto e Marco. Loro però sono fantastici, mi aspettano, mi incitano, mi fanno credere di essere il miglior esordiente che abbiano mai accompagnato, mi impongono una sosta ristoratrice in un bar.

Tengo duro e alla fine arriviamo in vetta. I miei angeli custodi sono più felici di me, grandi pacche sulle spalle e tantissimi complimenti; la salita è omologabile. Io tocco il cielo con un dito e intuisco la grandezza di questo sport. Ma è ora di pranzo, e a Stresa ci aspettano. Scendiamo tutti insieme dal versante di Baveno.

La discesa è stupenda, siamo tutti e tre leggeri ed euforici; passiamo davanti all’albergo ”Alpino” dove Gianfri, un’ora prima, in preda a dolori addominali lancinanti si era fermato qualche minuto. Da allora l’albergo è rimasto chiuso per anni, ufficialmente per lavori di restauro, in realtà per rifacimento servizi igienici e reti acque nere.

Rientrati a casa ci aspettano un pranzo succulento, l’incredulità ed i complimenti di Gianfri ma anche l’amorevole rimprovero della mamma di Alberto:
“Siete pazzi a portare sul Mottarone uno che non è mai salito in bici”.

Da allora non ho più smesso di pedalare. Grazie Alberto, grazie Marco.

Il mio primo Mottarone

(Maurizio T.)

(alla maniera di Piero Chiara e Stefano Benni; liberamente tratto da “il piatto piange” e “il grande Pozzi”)

a Luciano Passoni, imprescindibile maestro di vita;
a chi non c’ era;
a chi non ha voluto esserci;

Si andava in bicicletta in quegli anni, come si era sempre pedalato, con accanimento e passione; perché non c’era, né c’era mai stato altro modo per poter sfogare, senza pericolo, il dispetto verso gli altri, l’esuberanza dell’età e la voglia di amore.

Negli Studi professionali la vita è sotto la cenere: non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre e dagli schermi dei computer, c’è il mondo, e che per rompere quest’inceppo che si maledice e si adora, per aprirsi una strada, bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne vale la pena.

Il mio nome è Maurizio, e quella mattina il destino mi ha trasformato da umile portatore d’acqua a baluastro (baluardo+pilastro) dello studio Beretta contro lo strapotere della Ariatta srl.

Ora voglio sfogliare una ad una tutte le pagine del libro di quella terribile ascesa, perché nessuno parla più di quella giornata memorabile, sulla quale sembra scesa la tenda del silenzio; nessuno sembra più avere il coraggio di servirsene per continuare, ora che sarebbe facile, la persecuzione contro gli sconfitti.

La macchina della propaganda nei giorni precedenti la gara aveva invaso come una nebbia malsana tutti i paesi alle pendici del Mottarone , lasciando alle popolazioni delle valli, dal Cusio all’Ossola, dalla Val Cannobina alla Valgrande, una sola incertezza: “vincerà un elettrico o un meccanico?”.

Circolava la voce che il Gianfranco Ariatta avesse comprato al salone un 542×2, un rapporto che gli permetteva di fare trecento metri con una pedalata; e che il fratello Alberto, invidiosissimo, avesse risposto montando sulla sua Passoni uno 0,8 alla svizzera, per cui ogni pedalata corrispondeva esattamente ad un giro completo del Lago Maggiore, Isole comprese.

Si diceva che nell’ ultima uscita di allenamento il Gianfranco frenasse spesso in salita per non uscire di strada e che il suo cuore avesse battuto tre volte in tutta la ascesa: la prima volta alla fontana di Levo, la seconda al bivio di Gignese e la terza alla dogana; e che l’Alberto per allenarsi facesse le gare con l’ ascensore del grattacielo Pirelli e che, al top della forma, potesse resistere 3 giorni senza respirare perché i suoi polmoni tenevano di listino fino a 8000 litri.

Così colleghi e avversari, colpiti come da una sorta di rassegnazione, cominciavano a chiamare i due fratelli chi “lo stambecco del Cuvignone” e “il fanculone delle Ande” (nel senso di grande fan coil), chi “la trota dei Pirenei” e “la bestia umana”.

Con lo stato d’animo di chi non ha ormai più nulla da perdere, mi sono presentato finalmente, dopo una notte insonne , all’appuntamento col mio destino.

La prima sferzata di adrenalina mi ha raggiunto al Lido di Stresa qualche attimo prima della punzonatura, quando, sotto una pioggia battente, nel piazzale ancora deserto, da una ammiraglia è uscito il Passoni vestito da Passoni: la sua apparizione mi ha fatto l’effetto di un crampo, lasciandomi storto, voltato tre quarti all’isola madre, un quarto isola dei pescatori, con la borraccia gonfia tra le mani e il cardio impazzito dall’emozione.

Un alto episodio che resterà scolpito per sempre nelle mia memoria ciclistica è stato, in quegli attimi di febbrile attesa della partenza, l’arrivo dell’ammiraglia dell’organizzazione.

Dall’auto, ferma tra la folla vociante, si è spalancacata improvvisamente una portiera e non è sceso nessuno (ciclisticamente parlando allora): era l’Andreone.

Alla partenza, nonostante il cielo plumbeo e la pioggia sferzante, mi sentivo invadere dalla felicità: guardavo riconciliato il lago dal colore baio e la montagna sacra davanti a me, mentre cominciava a pulsare come cosa viva la mia Passoni in titanio; con le bici che avevo conosciuto prima di lei era stato come togliersi la sete con la grappa: ora mi dissetavo a una fontana d’acqua fresca; e avevo quasi timore di bere troppo, come quando si è accaldati e bisogna prima rinfrescarsi i polsi e le mani.

Alla fontana di Levo, senza preavviso, il primo assalto degli Ariatta: l’Alberto mi si attaccava dietro, pulendosi il naso nel didietro della mia maglietta per provocarmi.

Al bivio di Gignese il secondo attacco: il Gianfranco si alzava dalla sedia da barbiere che aveva montato al posto del sellino e lasciava partire una tremenda scarica di gas, che lasciava a terra due scoiattoli e, dissellato, il fratello del Passoni.

Alla dogana la gamba ha cominciato finalmente a girare, così ho potuto iniziare a interessarmi anche agli amati porcini che ornavano il ciglio della strada e che, per non dare scandalo e per non infrangere gli iniqui regolamenti imposti dall’Organizzazione, mi sono sempre fermato a raccogliere coperto dai tornanti.

Alla bivio di Armeno, però, il Mottarone mi presentava il suo terribile conto: i miei sensi ormai in sfacelo avevano trasformato la Passoni in una culla ondeggiante dentro la quale mi sarei certamente liquefatto se gli incitamenti del Luciano, dilatati in quel gorgo di nuvole e sudore, non m’avessero tenuto a galla, dirigendomi infine verso la vetta, dove i campionissimi, conclusa da tempo la loro dolce fatica, ci attendevano, seminudi come antichi dei, sulla linea del traguardo.

Al traguardo degli Ariatta nemmeno l’ombra!

Leggo sulla Gazzetta del giorno dopo: “alla Ariatta srl quattro suicidi e 2 casi di asiatica”; ogni altro commento è superfluo: come direbbe il Gino, il mio meccanico da una vita: “l’è come picagg a vun che caga”.

La discesa dal mottarone 2007

(Luca C.)

È difficile raccontare le sensazioni, i pensieri, che si provano scendendo in bici dal Mottarone dopo l’annuale cronoscalata. Siamo oltre la metà di settembre. Non è ancora autunno, ma in questa discesa si vive come un lento discendere , non solo dai 1400 metri della vetta alla bellissima Stresa, ma più propriamente dall’ alta stagione delle imprese ciclistiche all’autunno: alla stagione dei giri più moderati, quando però le gambe hanno ancora l’esuberanza la voglia e la forma dell’estate. È qualcosa che scendendo in auto credo non si possa capire fino in fondo. . . E vorrei che non finissero mai questi 20 chilometri in discesa!

Questo anno purtroppo all’appuntamento col Mottarone ci sono arrivato a fatica. Dopo gli anni 2005 e 2006 in cui sono riuscito a macinare da gennaio a dicembre 4000 chilometri migliorando sempre i miei tempi sulle salite della bergamasca e del triangolo lariano; il 2007 è stato un anno segnato da una notevole fatica. Nelle grandi salite ho visto solo peggioramenti. La stagione non è partita sotto buoni auspici; infatti, a marzo, proprio in primavera, ho dovuto sopportare un mese di riposo forzato, nell’attesa che tutti gli esami clinici a 360° stabilissero quale fosse la causa dei miei problemi respiratori e della stanchezza che mi arrivava addosso anche solo facendo due piani di scale. Alla fine sembrò che la colpa fosse dello smog milanese e probabilmente anche di un periodo di stress il quale ha contribuito al malessere generale. Il cardiologo mi disse addirittura che aver sospeso cautelativamente le uscite sportive in Brianza è stato più un male che un bene. Quelle che avrei dovuto sospendere sarebbero state le uscite quotidiane casa-lavoro nel traffico di Milano. Ma tant’è… alla fine niente di grave in vista; ma soprattutto mi sono ritrovato in tasca la certezza che avrei potuto dedicarmi serenamente, e col solito impegno, al ciclismo e alle salite come negli anni precedenti.

Resta il fatto che è stata una stagione in cui ho dovuto gestire l’esperienza non certo esaltante di veder peggiorare quasi tutti i miei personal best ; anche se lo spirito iniziale era quello di accontentarsi già solo di poter continuare a correre in bici.

Dopo questa estate non certo brillante (ma agli inizi di settembre la forma era piuttosto buona) arriva il giorno del Mottarone. È una bella giornata di sole che garantisce certezze. Al ritrovo al Lido di Carciano e durante il riscaldamento, ho dunque i miei problemi di respirazione e la pessima stagione dei quali lamentarmi con gli altri. Ma so già che dal punto di vista clinico-atletico “verbale” sarò in buona compagnia: infatti alla partenza stanno tutti male. Tutti sono venuti solo per onorare l’impegno, perché: « è un peccato restare a casa », ma poi… Vanno tutti come dei treni!

Ed eccoci alla gara!

Devo dire che la gara di quest’anno, a livello personale, mi ha davvero esaltato. Le emozioni positive che ho provato sono qualcosa di cui voglio tener vivo il ricordo e la volontà di ritrovarle. Ed è sostanzialmente per raccontare queste emozioni il motivo per cui ti scrivo Alberto; per ringraziarti quale organizzatore della gara.

La cosa che per me è stata particolarmente bella in questa edizione 2007, è il fatto che ho corso durante le fasi cruciali della scalata, praticamente insieme e contro (fianco a fianco) a due avversari di tutto rispetto. Negli anni precedenti ho sempre scalato il Mottarone come un lupo solitario nel bosco. Vale a dire che nei primi 500 metri vedevo sparire davanti a me tutti quelli più forti; nella frazione prima di Fontana Levo lasciavo dietro tutti quelli più lenti, e chi s’è visto s’è visto… Pedalavo solitario nel bosco senza altri stimoli che non fossero quelli dei tempi intermedi.

Quest’anno invece è stato ben diverso. Ad essere sincero, parlandone con amici, ho sempre sostenuto che la nostra cronoscalata non si può propriamente definire una “crono”, perché manca quella caratteristica essenziale di una prova a cronometro, cioè la solitudine dell’atleta con sé stesso e il proprio limite fisico, senza il condizionamento diretto della prestazione dell’avversario. Ma visto che le mie passate edizioni del Mottarone sono state in fin dei conti, per me, delle vere “crono” (solitarie nel bosco) e come si è già capito avrei preferito il contrario, ora penso che la gara è bella così com’è, e non vorrei mai che diventasse una vera crono .

La partenza non è male. C’è da divertirsi: c’è sempre chi corre come se si trattasse dei 100 metri finali! Sulle prime sembra la solita scena, con il gruppo dei forti che sparisce dietro le curve. Quest’anno, a differenza dell’anno scorso, mi sono prefissato di non andare assolutamente fuori soglia per tutti i primi 6 chilometri . Quando però vedo che col mio passo mi avvicino, raggiungo e stacco, Andreone Quartiroli e il mitico Luca Zoli che stanno salendo assieme, devo riconoscere che l’umore sale notevolmente; anzi: oserei dire che “pedala davanti a me”! Anche se farò una pessima prova, penso, sarà già una grande soddisfazione essere stato davanti a loro due anche solo per qualche momento della gara. Infatti devi sapere Alberto, che “l’ordine di scuderia” per me non è vincere, ma arrivare davanti al Quartiroli. Cosa mai successa prima d’oggi.

E così, con questo passo moderatamente speranzoso, recupero anche un gruppo di tre persone mentre sono sul lungo rettilineo dal quale si vede il bivio dell’Alpino.

Pedaliamo attaccati sostenendo l’andatura; e sono quasi certo che ognuno di noi pensa, così facendo, di portare gli altri a presentarsi davanti a quell’odioso strappo di 100 metri che attende dietro la curva, in condizioni non ottimali per affrontarlo. Proprio mentre siamo su quello strappo, ecco Luca Zoli che spunta da non si sa dove e ci dà un ventina di metri lasciandoci appena il tempo di rendercene conto. Ed io penso: « È stato troppo gentile. Quando saremo al ristorante lo devo ringraziare. Mi ha regalato dei momenti esaltanti facendomi vedere per quasi 4 chilometri che ero io ad essere davanti a lui ».

Già mezzo chilometro prima del pedaggio, due avversari rimangono indietro e mi ritrovo insieme ad un giovane davvero determinato (a tirarmi il collo!). Insieme a lui, subito dopo il breve tratto in discesa, recuperiamo Luca Zoli.

Si procede così: in tre, affiancati, in silenzio, per tutto il terribile tratto finale.

Tutti quelli sulla strada incitano Zoli: « Dai Luca! Dai! » ed io penso che valgono anche per me! Anzi, valgono per tre, visto che il giovane che io non conosco è Luca Toselli.

Dopo il chilometro 17.5, il tratto con la pendenza massima, anche se sono già da tempo 10 battiti oltre la soglia , provo ad aumentare un po’ l’andatura, però gli altri due tengono il passo. Ma dopo, credo 200 metri da quando ho interrotto quel tentativo, ecco che mi trovo con un crampo da sciogliere al polpaccio sinistro. Devo “rientrare”, devo rallentare, e mi rattristo. Mi sto preparando a salutare gli altri due Luca che se ne andranno. Ma non succede. Non so se abbiano anche loro qualcosa (ovviamente non si parla), ma si continua a procedere tutti e tre assieme.

Dopo l’ultimo bivio, a 1200 metri dalla vetta, Luca Toselli, “il giovane”, in 10 pedalate ci stacca di circa 7/8 metri. Zoli lascia fare; io da parte mia sono già contento che il crampo non mi abbia fermato. Ma dopo un po’, lentamente, aumentiamo l’andatura e recuperiamo l’altro Luca.

Non sembra vero: siamo ancora tutti e tre affiancati. Solo che ora abbiamo il traguardo a meno di 100 metri . Ed è follia pura: nessuno cede. Si parte senza guardarsi per una volata esaltante di circa 20 metri !

Traguardo tagliato. Fiato da recuperare. Pedalata che non si riesce a interrompere subito… La cosa più bella è vedere Zoli provato quanto me, sapere che non è “andato a spasso”, che ha provato a mettere la sua ruota davanti… E ringraziarsi l’un l’altro!

Vorrei un Mottarone sempre così. Con degli avversari che ti costringono a tirare fuori tutto quello che puoi, e forse di più. Vorrei sempre delle persone che fanno di tutto per batterti, e che ti fanno venir voglia di provare a batterli. Perché l’importante è vincere!

Solo dopo, davanti alla polenta, si potrà dire che l’importante è, non “ partecipare ”, ma “ aver partecipato ” .

È difficile scendere dal Mottarone, non per la discesa in sè: l’ultima cosa a cui penso scendendo sono le traiettorie migliori; è sufficiente che siano traiettorie prudenti.

Penso a molte cose… Ma soprattutto a cosa è per me il ciclismo, che posto ha nella mia vita …

È difficile scendere dal Mottarone, vorrei rimanere su. Sulla vetta di quella che – nel cuore – è, e rimarrà sempre, la “Cima Coppi” dell’intera stagione.

La cronoscalata più bella che ci sia

(Franco P.)

La salita al Mottarone è già da sola una bellissima scalata.
Ma, come dice Marco, la cronoscalata al Mottarone (che si ripete puntuale ogni anno da ormai 19 anni) è di più : è una metafora della vita. E’ dura, molto dura, ma fatta con gli amici diventa un divertimento.

E dopo un po’ di anni di colpevole assenza eccomi qui al parcheggio di Baveno, insieme ad altri 170 e più ciclisti (incredibile come il numero sia andato aumentando di anno in anno), quasi pronti per la partenza.
Ormai l’organizzazione è degna di una granfondo : pettorali, servizio cronometrico di precisione, auto al seguito per presidiare il percorso, maglietta tecnica nel pacco gara. Ma soprattutto è un gran ritrovarsi tra amici con cui si condivide la passione e che magari non si vedono da tempo ma non vogliono mancare l’appuntamento clou della stagione.

Sì perchè, diciamocelo, tutto l’allenamento dei mesi invernali , le granfondo primaverili e estive , le sveglie all’alba …hanno un solo scopo : bastonare l’amico di turno sul Mottarone. Non per niente è un po’ come il giro di Lombardia : chiude la stagione e consente a tutti di arrivare preparati al top per la bastonata di turno : sperando di darla e non di prenderla.

Sulle gare “in amicizia” è stato detto tutto. SI ride e si scherza con i piedi per terra, ma non appena il culo sale in sella non si guarda in faccia a nessuno.

E quindi il Gibernauta cosa ci fa qui? Dopo una stagione dedicata più alla corsa tranquilla e alla MTB è chiaro che il nostro non puo’ avere alcuna ambizione. Primo obiettivo : arrivare in fondo. Secondo obiettivo : cercare di non scoppiare sugli ultimi rognosi tornanti. Terzo obiettivo : impiegare un tempo decente. Una unica certezza : oggi di bastonate ne prendero’ una carriolata.

Primo e secondo obiettivo centrati. Sul terzo….bè c’è da lavorare.La certezza, infine, si è rivelata tale.

Radunare una mandria di pedalatori che scalpitano è impresa ardua ma Gianfranco e Alberto riescono miracolosamente ad incanalare la truppa verso l’incrocio che dà il via alla gara. E….. si parte!

Non è che la salita non la conosca. Anzi. La ricordo bene. Ricordo che è fatta di tre tronconi ben distinti : il primo è duro fino a Levo, poi c’è un falsopiano che consente un buon recupero e infine si attacca l’ultima parte che è un calvario di pendenze crescenti fino agli ultimi tornanti e all’ultimo rettilineo bastardo prima della vetta.

Quale è la strategia migliore? Ovvio : partire con calma, frenare gli entusiasmi e conservare energie per l’ultima mezz’ora.

Ed infatti, ligio a questa strategia semplice e chiara parto a cannone e dopo pochi tornanti vedo con sconforto il cardio che non fa bip impazzito solo perchè (per decenza) ho tolto l’allarme. Ma come si fa a non farsi prendere dall’entusiasmo quando sei in mezzo a poco meno di duecento altri compari che stanno seguendo, chi più chi meno, la stessa strategia suicida? Impossibile.
In realtà molti non stanno seguendo la tattica suicida : semplicemente salgono forte ma stanno conservando energie per dopo.Ma questi in breve tempo non li vedo più.

Quindi la strategia cambia : andiamo su così e vediamo quando scoppio. Notare bene : non “se” ma “quando”.

Poco a poco il gruppo si sgrana e salendo noto la varietà dei partecipanti : chi sale in piena tenuta da Eroica in sella a splendide Gios blu anni 70. Chi pedala su impressionanti bici da crono (ma come si fa a andare in salita su certi trampoli? acrobati!) chi sale chiacchierando e ti passa in scioltezza (davvero tanti…), chi si vede che già prima di Levo ha dato fondo al barile (io), tenute di grande eleganza (e qui chi se non il nostro mitico Andrea, come al solito impeccabile maestro di stile), magliette di granfondo note e meno note, attrezzature avveniristiche e qualche MTB ben stagionata. Insomma : davvero di tutto, anche se il cronometro poi dirà che anno dopo anno le prestazioni medie del gruppone sono migliorate sempre.

Levo arriva come una benedizione, e qui c’è tempo per recuperare un po’ sui chilometri che portano al bivio per Gignese. Ma c’è davvero poco tempo per godersela. La curva a destra arriva improvvisa e ZAC : la pendenza si fa subito vicina alle due cifre. Ormai i primi non li vedo più da un pezzo (a dire il vero non li ho mai visti, se non alla partenza e all’arrivo – loro già cambiati) e mi sono accoccolato in un gruppetto che sale più o meno al mio ritmo. Ho sentito una volta una intervista a Pantani che diceva che quando gli sembrava di essere al massimo sforzo guardava gli altri vicino a lui e vedeva facce altrettanto stravolte. Sarà che lui era Pantani e io sono il Gibernauta, fatto sta che le facce vicino a me mi sembrano belle tranquille, mentre io sbuffo come un mantice per tenere le ruote.

E continua così : qualcuno si stacca ma poi rientra, qualcuno saluta la compagnia e se ne va, qualcuno (io) resta attaccato alle ruote con le unghie e con i denti. Dopo la breve discesa della sbarra arriva l’ultima mazzata. Da qui sono circa 6 km a poco meno del  10% di pendenza media, con qualche tornante bastardo che ci regala dei 12% – 13%. Ormai io sono in modalità sopravvivenza. 34X28 fisso e cercare di mantenere una velocità (meglio dire lentezza) che consenta di tenere almeno l’equilibrio.

Passano pian piano le due fontane, passa pianissimo la seconda sbarra e arriva il bivio sulla statale che sale dal lago d’Orta. Ed ecco il tratto più duro : un rettilineo bello largo che maschera ignobilmente la pendenza a doppia cifra e dà una bella mazzata a chi pensava di essere ormai quasi arrivato. Infine lassù sbuca il traguardo : tantissima gente (ovvio, tantissimi già arrivati da tempo) e l’incitazione che non manca mai. Qui il Gibernauta si riprende e, a costo di esalare l’ultimo respiro, tenta un misero allunghino con la faccia sorridente (che fatica quel sorriso dissimulatore). E sono in cima.

Anche questa volta ho portato le giberne lipidiche (rognosamente attaccate al girovita) in cima al Mottarone.

C’è tempo per qualche breve chiacchiera e poi si scende per ritrovarci a quello che è il vero motivo di questo raduno e che giustifica la faticata del mattino : il pranzo insieme (quasi 200 persone!) vero rifornimento calorico per cui le mie giberne ringraziano con affetto. Ma soprattutto  la ineguagliabile cerimonia di premiazione gestita da Marco.

Non c’è dubbio: è la cerimonia di premiazione più lunga e divertente del mondo e della storia. Nemmeno alle olimpiadi si raggiungono tali vette. Pare che anzi Marco sia stato contattato dal CIO per le cerimonie di premiazione delle olimpiadi di Tokio , ma poi è stato scartato perchè pare che abbia preteso di poter premiare TUTTI I PARTECIPANTI UNO PER UNO COME SI FA AL MOTTARONE. Ci sarebbero stati pero’ problemi con le dirette in mondovisione e le Olimpiadi del 2020 avrebbero rischiato di concludersi nel 2021, quindi non se ne è fatto nulla. Ma vuoi mettere il divertimento di vedere sfilare tutti quelli che fino a poco prima sudavano col culo in sella, per prendersi il complimento di Marco e Alberto e Gianfranco (baci solo alle signore)? Impagabile.

P.S. il tempo? ah già : 1h33 e spiccioli. Ben lontano dal mio best sotto l’ora e venti, ma il massimo a cui potessi aspirare con poco più di 600km nelle gambe nel 2017.

Alla prossima!